Un libro che, a mio avviso, ogni insegnante e la considerazione vale ovviamente non solo per gli insegnanti, dovrebbe leggere sia per la sua godibilità sia per la spietatezza con la quale descrive la miseria dell’ambiente scolastico è Il Maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi, pubblicato nel 1962, così come è meritevole di apprezzamento il film di Elio Petri che ne è stato tratto nel 1963.
Si tratta, in entrambi i casi, di opere che valgono, sempre a mio avviso, quanto un trattato sociologico e che permettono di ragionare partendo da un punto fermo: la scuola prima del ciclo di lotte studentesche del ’68 e dei lavoratori della scuola degli anni ’70 ed ’80 e della massa di riforme, controriforme, aggiustamenti, che sono riuscite nell’incredibile risultato di portare al deterioramento ulteriore di un un’istituzione che, già in partenza, era degna di disprezzo. Un osservatore più colto di me, e non ne mancano, direbbe come questi cicli di lotte siano stati assorbiti e sussunti con il sostegno di una burocrazia sindacale ottusa oltre che corporativa e di una massa di geni della didattica, Costanzo Preve in testa, un autore del quale non condivido quasi nulla, che infestano il ministero dell’istruzione.
Per esigenze di spazio, mi limito a due invarianti: la presenza di una massa impressionante di precari e la modestia delle retribuzioni che caratterizza, se si paragona la situazione italiana con quella di nazioni simili dal punto di vista dello sviluppo economico e dell’assetto politico, i lavoratori della scuola.
A quasi sessant’anni di distanza dall’uscita del libro di Mastronardi, il lettore della stampa italiana viene in questi giorni informato del fatto strabiliante che poco meno di un quarto degli insegnanti italiani è precario – nonostante governi di destra, di sinistra, di sopra, di sotto, di lato abbiano promesso una soluzione definitiva della “supplentite”, tanto per usare l’orrido neologismo che definisce il fenomeno.
Ad ogni provvedimento, ad ogni riforma del sistema di reclutamento nella scuola, è seguita una recrudescenza della malattia. Puntuale come le emorroidi la supplentite ha ripreso a caratterizzare la vita della scuola.
Non si può negare che l’argomento suscita un certo qual interesse nei media, d’altro canto si tratta di un interesse essenzialmente rivolto alla ricerca dei “casi umani”. Ricercatissima è la precaria cinquantenne, se possibile con tre o quattro figli, sbalestrata da una scuola all’altra nell’attesa di una mitica immissione in ruolo. Se poi è sessantenne e nonna con figli e nipoti diventa un’eroina.
Minore attenzione vi è all’individuazione di soluzioni radicali che prevederebbero, ed è questo il problema, risorse tali da garantire l’assunzione in ruolo di tutti gli insegnanti necessari e, di conseguenza, la garanzia per loro di incrementi delle retribuzioni. Non dimentichiamo che un precario viene retribuito per anni con la paga base e, quando è assunto in ruolo, recupera solo in parte e, ovviamente, in ritardo, quanto ha perso. Vanno, inoltre, ricordate condizioni normative molto migliori, si pensi solo alla retribuzione dei periodi di malattia seccamente peggiore per i precari rispetto agli insegnanti di ruolo.
A questo proposito, varrebbe la pena di domandarsi se la scelta di gonfiare il precariato è una scelta solo economica in capo al ministero delle finanze o se il precariato è pensato anche come palestra d’obbedienza: la proliferazione del precariato, con la connessa divisione dei docenti in variegate e molteplici sottocategorie, è funzionale ad un disegno di controllo. Frammentati, litigiosi tra loro i docenti sono più governabili.
Anni di contratti a termine, ricattabilità e discriminazione normativa, sono un tentativo di fiaccare la forza delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola e di far perdere loro spirito critico nei confronti del moloch scuola, al quale vengono educati a sacrificare la propria indipendenza nella speranza di essere premiati con l’agognato ruolo.
Sicuramente l’esistenza di un numeroso precariato nella scuola è interesse di molti. È, infatti, un vasto campo di pascolo per spregiudicate organizzazioni sindacali e per studi legali specializzati in redditizi, per loro, ricorsi legali, per il ceto politico che si ritaglia belanti clientele promettendo di tutto a tutti e stimolando la competizione fra diversi gruppi di precari. Va anche detto che questo processo di frammentazione in buona misura funziona.
In questi giorni chi scrive ha avuto modo di sperimentare a che punto si sia pervenuti, sulla base di un fatto di per sé minore ma illuminante. In occasione dell’assunzione dei precari della provincia di Torino il sindacato di base nel quale milita ha diffuso un volantino che denuncia la situazione dei precari e propone la mobilitazione su alcuni obiettivi di comune interesse. Non si tratta, sospetto, di un testo che passerà alla storia del movimento dei lavoratori: ha però scatenato un rilevante numero di lettere critiche di colleghe e colleghi che segnalano la necessità di aggiungere rivendicazioni particolari per ogni specifico segmento del precariato scuola, un esempio di come la burocratizzazione del mondo influenza il modo di ragionare di lavoratrici e lavoratori che avrebbero tutto l’interesse ad affrontare radicalmente la questione.
Passando alla questione salariale, riprendo quanto scrive a questo proposito l’amica e compagna Giovanna Lo Presti nell’articolo “Il buon giorno si vede dal mattino. Tempi bui per la scuola italiana” pubblicato Sul sito “Viva la scuola”
https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/tag/giovanna-lo-presti/ .
“Sul sito ISTAT, alla voce “Calcolo della soglia di povertà assoluta” troviamo che una famiglia formata da due genitori ed un bambino tra i 4 e i 10 anni è assolutamente povera se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a 1.390,91. Tale dato si riferisce all’anno 2017. La prima fascia stipendiale di un docente di scuola secondaria è di 1.350 euro; un docente di scuola primaria guadagna 1.262 euro. Entrambi quindi, se hanno un coniuge a carico ed un figlio piccolo si trovano nella fascia di povertà assoluta. (…)
Il confronto tra le retribuzioni dei docenti italiani e quello dei colleghi di altri Paesi europei vede il nostro Paese come fanalino di coda in tutti i sensi. Gli ultimi dati OCSE evidenziano che una parte della differenza è dovuta alla lentissima progressione di carriera per i docenti italiani, che arrivano alla retribuzione massima alle soglie della pensione. Lo stipendio annuale di un docente italiano di scuola superiore, all’inizio carriera, è inferiore di 7.231 euro rispetto a quello di un docente spagnolo; a fine carriera la differenza è di 6.417 euro; rispetto ad un tedesco, in situazione analoga, l’italiano guadagna -28.227 euro (-113,66%) ad inizio carriera e – 37.877 euro (-97,37%) a fine carriera. Le cose peggiorano se si guarda al potere d’acquisto degli stipendi: nel caso di un docente delle scuole superiori a fine carriera si va da una differenza di -5.889 dollari(-12,24%) rispetto allo stipendio dei francesi, a -13.422 dollari (-27,89%) nei confronti degli spagnoli, a -36.348 dollari (-75,53%) degli olandesi, per culminare a -44.265 dollari (-91,99%) rispetto ai tedeschi.”
Ora, il fatto è che, in questa situazione, con un contratto, peraltro pessimo, scaduto il 31 dicembre 2018, da una parte i sindacati istituzionali sembrano in tutt’altre faccende affaccendati, dall’altra la stessa categoria sembra serenamente mitridatizzata dopo l’assunzione di molti, troppi, contratti volti, nei casi migliori, a recuperare parte di quanto si è perso negli anni passati ed addestrata ad affrontare la questione del reddito mediante l’accesso a quote di salario accessorio legate al “merito”, leggasi accondiscendenza verso la gerarchia.
Ad aggravare la situazione, si aggiunge l’incapacità, per non dire peggio, dei gruppi dirigenti del sindacalismo di base in categoria che, in diversi casi, oscillano fra il tentativo di funzionare come gruppo di pressione sulla CGIL e la coltivazione di un proprio spazio marginale e stentano anche solo ad immaginare la possibilità di essere punto di riferimento per una mobilitazione sulla questione salariale.
Si tratta, a mio avviso, in questa fase di individuare alcuni, pochi, punti su cui investire le energie disponibili, di fare uno sforzo di comprensione puntuale della composizione tecnica della categorie e di adeguare linguaggi e modalità di azione ad un quadro disegnato da una massiccia modificazione della categoria stessa, dalla rilevanza di nuove leve che non hanno nemmeno memoria dei cicli di lotta precedenti, di legare le questioni strettamente sindacali a una critica generale della scuola consegnataci di processi storici ai quali ho fatto, assai poveramente, riferimento.
Cosimo Scarinzi